“La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente quei “magistrati inquinati”, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi ne avrebbero rafforzato la motivazione ad uccidere Bruno Caccia, confidando che alla sua morte sarebbero subentrati i magistrati loro amici. Un giudizio severo, ma – come vedremo – per lo più senza conseguenze…”
IL CONTESTO
Per comprendere il contesto in cui è maturato l’assassinio del procuratore capo della Repubblica a Torino Bruno Caccia è necessario inquadrare l’ambiente storico e culturale e criminale piemontese degli anni 70-80. Era il periodo in cui la città di Torino e lo stesso Piemonte e gran parte dell’Italia era sotto la pressione del terrorismo “rosso” della sinistra estrema rivoluzionaria e “nero” della destra estrema eversiva. Le Brigate Rosse e di Prima Linea da un lato; dall’altro del terrorismo cosiddetto “nero” di estrema destra di Ordine Nuovo, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) e altri gruppuscoli di estrema destra neofascista. Senza trascurare gli altri aspetti criminali organizzati che si svilupparono in modo preoccupante proprio in quello stesso periodo. Fu il dilagare in Nord Italia di sequestri di persona legati all’ambiente della mafia siciliana e calabrese esistenti da tempo, criminalità nel Nord Italia non ancora percepita nelle sue dimensioni e sua importanza.
LA SITUAZIONE A TORINO NEL 1980
In questa situazione storica Bruno Caccia fu nominato procuratore capo della Repubblica nel 1980. Egli così successe a magistrati capi dell’ufficio che non avevano dimostrato di essere capaci di iniziative penetranti. Caccia aveva già seguito insieme ai giudici istruttori di Torino tutta una fase importantissima delle istruttorie sulle Brigate Rosse. Istruttorie trasferite a Torino per competenza a causa nella presenza di vittime tra i magistrati di Genova e della conseguente assegnazione a Torino delle indagini stabilita dalla Cassazione.
Ricordo bene che quando entrai in magistratura come giovanissimo giudice istruttore nel 1972 il capo dell’ufficio era una persona carismatica: Mario Carassi mio, indimenticabile maestro e guida. Mario Carassi mi mise subito in guardia su una certa situazione molto delicata e spiacevole. Mi informò che infatti non vi era un rapporto ideale tra i due uffici della Procura della Repubblica e quello dei Giudici Istruttori almeno in alcuni casi… Pertanto invitò a essere potentemente diffidente nei confronti specifici di magistrati anziani in servizio alla Procura.
Bruno Caccia arrivò già ben consapevole di questa situazione e subito ebbe la conferma concreta del perdurare di condotte scorrette di alcuni sostituti procuratori già noti. Gli stessi che poi furono sottoposti a processo disciplinare e penale, per sua specifica iniziativa. Quando Bruno Caccia fu ucciso, insomma, l’Italia era distratta (e a questa distrazione non rimediò mai). Il 1983 fu l’anno in cui, come scrive Gian Carlo Caselli in Le due guerre, «l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo». Anche grazie all’impegno in prima linea di Bruno Caccia. Nel 1975 era stato lui, a Torino, a redigere e firmare la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle Brigate Rosse che si stava celebrando in quei giorni nel carcere torinese delle Vallette in secondo grado (la requisitoria porta la data del 3 luglio 1975). Il processo iniziò nel 1976, ma – alcuni lo ricorderanno – nel 1977 non si era celebrata neppure un’udienza, perché in tutta Torino non si trovavano sei cittadini disposti a ricoprire l’incarico di giudici popolari. Bruno Caccia, sostituto procuratore generale, e Gian Carlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito l’intero processo ricorrendo per la prima volta all’accusa di “banda armata”.
L’Italia delle elezioni politiche del 1983, dunque, usciva dall’emergenza del terrorismo. Non da quella delle mafie, che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, facevano centinaia di morti. Tra il ’79 e l’83 si contarono 818 morti ammazzati in Campania, dove Luigi Giuliano aveva costituito una federazione di famiglie napoletane (denominata prima Nuova Fratellanza, poi Nuova Famiglia) per combattere lo strapotere di Raffaele Cutolo. E mille morti ammazzati tra l’81 e l’83 in Sicilia, dove Totò Riina aveva dato inizio alla cosiddetta “seconda guerra di mafia”, per sterminare i mafiosi palermitani della vecchia guardia. La ’ndrangheta era uscita rinnovata da qualche anno dalla prima guerra di mafia (iniziata nel ’75 con l’omicidio del capo dei capi della ’ndrangheta, ’Ntoni Macrì, padrino vecchia maniera). Da allora si chiamava “Santa”: inizialmente trentatré (numero tipico del rituale massonico), i “santisti” erano autorizzati dal codice della nuova organizzazione a intrattenere rapporti con ambienti prima vietati (a cominciare da carabinieri e poliziotti), e ad affiliarsi alla massoneria deviata, in modo da gestire direttamente il potere politico ed economico e ad aggiustare le sentenze. Vedremo più avanti con quali possibili risvolti proprio nel movente.
LA RINASCITA DELLA PROCURA
Posso quindi con tranquillità affermare che da un lato Bruno Caccia fu amatissimo da una parte di magistrati della Procura che vedevano in lui la possibilità di un vero riscatto dell’ufficio; nonché dalla maggior parte dei giudici istruttori che infine vedevano la possibilità di collaborare con reciproca fiducia ed efficacia con l’ufficio della Procura della Repubblica evitando tante situazioni spiacevoli e dannose degli anni precedenti. Altrettanto non si poteva dire di altri magistrati che inevitabilmente ( sia pure in maniera non esplicita ) si opposero all’azione risanatrice portata avanti da Bruno Caccia. Nel 1983 queste trame erano ancora oscure. Il primo a squarciarle, com’è noto, fu Tommaso Buscetta. Per la ’ndrangheta bisognerà aspettare fino al 1992, quando inizierà la collaborazione di Giacomo Lauro, inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice “Alfa”.
Raccontare il caso Bruno Caccia significa anche riesumare le «relazioni pericolose» a cui è dedicato il capitolo più doloroso della seconda sentenza di appello per l’omicidio, che descrive il quadro delle indagini. Gli investigatori non avevano ancora individuato chi lo aveva ucciso, ma a poco a poco scoprivano le trame di alcuni suoi colleghi per favorire gli stessi malavitosi che lui aveva messo sotto inchiesta, dirigendo un ufficio di magistrati giovanissimi. La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente quei “magistrati inquinati”, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi ne avrebbero rafforzato la motivazione ad uccidere Bruno Caccia, confidando che alla sua morte sarebbero subentrati i magistrati loro amici. Un giudizio severo, ma – come vedremo – per lo più senza conseguenze.
Ecco perché si può dire che eliminazione fisica di Bruno Caccia, (poiché non era certamente possibile influenzarlo in altro modo con le minacce né attraverso blandizie) finì per divenire necessaria secondo la parte criminale privata e quella pubblica collusa. Forse fu perché era stato vanamente tentato di “sondare il terreno” nei suoi confronti che una parte dei delinquenti organizzati insediati a Torino ed in Piemonte e collegati a quel gruppo di magistrati infedeli decisero di passare all’atto omicida. Sia pure a posteriori é quindi emerso con chiarezza che Bruno Caccia fu assassinato sia per quello che aveva fatto, sia per quello che si temeva che avrebbe potuto ancora fare in una serie di delicate indagini in corso: come quella sui Casinò della Valle d’Aosta (collegati ad altri in Liguria come Sanremo e al confine svizzero come Campione d’Italia) ed ancora in altre delicate inchieste.
IL SABATO PRIMA...
Il sabato mattina 25 Giugno 1983 io ero in ufficio come quasi sempre. Mi incombevano, come giudice istruttore, le necessità di lavoro urgenti di chi si occupava di un processo di grandissima rilevanza sullo scandalo dei Petroli. Bruno Caccia, era ugualmente presente anche quel sabato, come sua costante abitudine. Ebbi quindi la possibilità di consultarlo e coinvolgerlo in un parere urgente in ordine alla necessità di emissione di un importante e delicato mandato di cattura. Si trattava di un provvedimento urgente nei riguardi di altissimi ufficiali della Guardia di Finanza e di alcuni alti funzionari del ministero delle Finanze, nel settore delle Dogane e dell’ imposta di fabbricazione sugli oli minerali (petrolio). In questa occasione ebbe modo di mostrarmi alcuni appunti riservati. Queste annotazioni tra l’altro concernevano il comportamento di magistrati di cui alcuni del suo ufficio. Tra di essi, uno in particolare che aveva palesemente insabbiato alcune inchieste quando il settore di frode e corruzione nel contrabbando petrolifero era in piena espansione. In questa occasione volle parlarmi specificatamente in ordine ad un appunto da me inviatogli che conteneva una precisa denuncia nei confronti di questo magistrato. Costui aveva chiaramente tenuto un comportamento di copertura dei responsabili di frodi nello stesso settore dei Petroli. Inoltre poco tempo prima mi aveva inviato un biglietto di velate minacce verso di me (scritto di suo pugno); che, in più, rivelava indirettamente un suo costante contatto con un imprenditore, all’epoca latitante su mandato di cattura da me emesso per falso e contrabbando in oli minerali, nel processo dei petroli. Questi contatti illeciti furono poi provati e confessati nell’istruttoria del giudice istruttore di Milano a carico dello stresso magistrato torinese. La sera successiva Bruno Caccia fu assassinato davanti la sua abitazione.
Il PRIMO TENTATIVO DI DEPISTAGGIO
Bruno Caccia fu assassinato il 26 giugno 1983 mentre portava a passeggio il proprio cane; venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo, che spararono numerosi colpi di arma da fuoco.
Sin da subito le indagini degli inquirenti presero la pista delle Brigate Rosse: infatti, mezz’ora dopo l’agguato, un uomo chiamò il centralino del quotidiano La Stampa: “Non capisco, stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate Rosse, hanno ucciso il dott. Bruno Caccia”.
Il mattino successivo due telefonate a quotidiani di Roma e alla sede RAI di Milano rivendicarono nuovamente l’attentato a nome delle BR. Tuttavia quindici giorni dopo l’omicidio, l’11 luglio 1983, le Brigate Rosse negarono ufficialmente di essere autrici del delitto: “Con la morte di Bruno Caccia noi non c’entriamo – dichiarò il brigatista Francesco Piccioni leggendo un comunicato nell’aula del carcere ‘Le Vallette’ di Torino -. Questo è un omicidio a cui purtroppo siamo estranei”.
LA RIPRESA DELLE INDAGINI A MILANO
Un mese dopo il delitto, il 26 luglio 1983, gli atti dell’inchiesta sull’omicidio furono trasferiti per competenza da Torino a Milano, dove il Procuratore capo Mauro Gresti assegnò il fascicolo ad un magistrato relativamente giovane.
Le indagini sull’omicidio segnarono il passo per circa un anno, durante il quale furono sentiti diversi frequentatori del casinò di Saint-Vincent, tra cui anche Rosario Cattafi. Questa pista di indagine non fu ritenuta valida nonostante alcuni testi e ufficiali di polizia giudiziaria l’avessero indicata esplicitamente
Il RUOLO DEI SERVIZI SICUREZZA (SISDE)
Lo svolgimento delle indagini istruttorie dopo una lunga fase di stallo ebbe (dopo anni) un nuovo impulso da un intervento molto particolare. Un responsabile del centro torinese dei servizi segreti civili (SISDE) si offrì di far agire come agente provocatorio all’interno del carcere di Torino un noto e importante mafioso catanese, Domenico “Ciccio” Miano. Questi risultava legato da rapporti di cooperazione criminale al gruppo mafioso calabrese impiantato da tempo a Torino: gruppo che poteva essere responsabile dell’omicidio. Lo scopo era quello di indurre a parlare dei fatti e delle motivazioni dell’omicidio il loro capo riconosciuto, Giuseppe Belfiore.
Francesco Miano fu incaricato di effettuare occultamente in carcere la registrazione di colloqui da lui intrattenuti con il boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore, ugualmente detenuto nel carcere di Torino per altra causa.
Stando alle dichiarazioni di Miano e alle registrazioni dei suoi colloqui con Belfiore, quest’ultimo si sarebbe assunto la responsabilità di mandante dell’omicidio Caccia.
In seguito, e correlatamente a questa azione, a partire dal mese di luglio 1984, alcuni membri della criminalità organizzata in stato di detenzione iniziarono a rilasciare all’Autorità Giudiziaria una serie di dichiarazioni che indicavano elementi della malavita organizzata di origine calabrese come gli autori e mandanti dell’omicidio del procuratore Caccia. Mimmo Belfiore fu la persona che poi sarà il principale imputato condannato (e alla fine, l’unico; almeno fino a un’epoca recentissima) come mandante dell’assassinio. Questa impostazione dell’indagine risultò poi essere stata decisa e consentita dai magistrati inquirenti torinesi (peraltro già non più formalmente competenti per questo delitto!) allo scopo di ottenere dei risultati altrimenti (secondo essi) non conseguibili. Tuttavia questa scelta finì per inquinare (o almeno restringere) la ricerca della verità nello svolgimento processuale successivo, sia istruttorio, sia dibattimentale. Di fatto questo orientamento a senso unico non permise di arrivare a elementi di più ampia comprensione dei fatti e della responsabilità penale e morale di questo spietato assassinio mafioso.
IL CRIMINE ORGANIZZATO AL NORD, UNA REALTA’ GIA’ NEL 1970-1985
E’ necessario sottolineare che già negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la criminalità organizzata operante a Torino faceva principalmente riferimento a due gruppi, distinti tra loro sulla base della provenienza geografica ma poi legati da comuni parziali interessi criminali.
Si trattava de “i catanesi (i cd cursoti)” e “i calabresi ndranghetisti”. Leader dei ‘catanesi’ è personaggio comunque di indiscusso prestigio, Francesco Miano, che si avvaleva – nella prevalente attività di commercio di sostanze stupefacenti – della collaborazione del fratello Roberto (…).
Il gruppo dei ‘calabresi’ – dedito in particolare ai sequestri di persona a scopo di estorsione – aveva al suo vertice Domenico Belfiore, con il fratello Giuseppe Belfiore e soprattutto con il cognato Placido Barresi, Mario Ursini e la ‘mente finanziaria’ del gruppo, Franco Gonella’. (…) Le attività dei due gruppi avevano numerosi punti di contatto. Le indagini condotte dall’Autorità Giudiziaria di Torino accertarono, ad esempio, il sostegno fornito dal gruppo dei ‘catanesi’ a quello dei ‘calabresi’ (e viceversa) per sfruttare ‘entrature’ nel mondo giudiziario e condizionare l’iter processuale di procedimenti penali riguardanti membri appartenenti ai due clan”
L’ABBANDONO DELLA PISTA DEI CASINO’
La pista dei casinò fu quindi completamente abbandonata .
La mafia messinese e quella di Barcellona Pozzo di Gotto cui risultava essere legato quel Rosario Pio Cattafi indicato nel rapporto del maggiore Bertella, non fu mai realmente coinvolta nelle indagini istruttorie e nemmeno nei successivi processi .
I processi che si celebrarono in seguito videro infatti solo la condanna definitiva di Domenico Belfiore quale mandante dell’omicidio. Il movente che spinse Domenico Belfiore a programmare l’omicidio del Procuratore Caccia fu identificato nella costante azione di contrasto che il magistrato esercitava nei confronti del gruppo criminale guidato da Belfiore. Tuttavia, nulla emerse durante i dibattimenti sui nomi degli esecutori dell’omicidio e su eventuali altri mandanti rimasti nell’ombra. (…) Nelle sentenze inerenti l’omicidio Caccia, solo poche pagine sono dedicate ad un possibile movente del delitto distinto da quello indicato a carico di Domenico Belfiore.
NUOVI ELEMENTI, DOPO 19 ANNI
Diciannove anni dopo la sentenza di condanna definitiva a carico di Belfiore, una intercettazione telefonica ruppe la coltre di silenzio calata sull’omicidio Caccia.
Nel 2011, infatti, furono depositati a Reggio Calabria gli atti relativi ad un’inchiesta in cui un magistrato, il dottor Olindo Canali, era indagato dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria per falsa testimonianza aggravata.
Nel fascicolo era presente un’intercettazione del dr. Canali poi confermata testimonialmente in giudizio nella quale egli faceva diretto riferimento, in merito all’omicidio Caccia, a Rosario Pio Cattafi.
Egli all’epoca dell’assassinio di Bruno Caccia era uditore giudiziario a Milano nell’ufficio del magistrato titolare delle indagini, Francesco Di Maggio.
A trent’anni dall’omicidio, quindi, i figli di Bruno Caccia, con il loro avvocato Fabio Repici, chiesero alla Procura di Milano di riaprire le indagini (https://www.youtube.com/embed/R8XypODlzTI).
La famiglia tramite il suo difensore propose, con una dettagliata controinchiesta, l’ipotesi del coinvolgimento nell’omicidio del Procuratore Caccia della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint Vincent e altre case da gioco i guadagni dei loro traffici illeciti.
I nomi delle persone chiamate in causa dalla famiglia furono principalmente due: Rosario Pio Cattafi, identificato come ipotetico mandante dell’omicidio, e Demetrio “Luciano” Latella, quale ipotetico esecutore.
Secondo il legale della famiglia Caccia, Fabio Repici, il pm Francesco Di Maggio all’epoca avrebbe già “raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo. (…) La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento“.
Per due volte, i procuratori della Direzione investigativa antimafia di di Milano iscrissero l’inchiesta tra gli atti “non costituenti notizia di reato”. Registro che proceduralmente non consente di svolgere se non delle limitate attività informative.
Le indagini quindi non avanzarono.
Solo nel 2015 e solo in seguito al deciso intervento del Procuratore generale reggente cui si erano rivolti i famigliari tramite il legale, i nomi di Cattafi e Latella furono infine iscritti nel registro degli indagati, con l’ipotesi di reato di concorso nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia e vi fu una nuova spinta investigativa in generale che coinvolse anche la Squadra Mobile di Torino.
Infatti da alcuni mesi Giuseppe Belfiore era stato messo in detenzione domiciliare per gravi motivi salute e si trovava nella sua abitazione in provincia di Torino. Furono attivate intercettazioni ambientali, inizialmente senza esito.
Il 22 dicembre 2015, a sorpresa, il GIP di Milano dispose l’arresto di una persona diversa, con l’accusa di essere uno dei killer di Bruno Caccia.
Si trattava di un panettiere di origini calabresi, già coinvolto e condannato in processi per traffico di stupefacenti, Rocco Schirripa.
La squadra mobile di Torino, sotto la direzione dei magistrati milanesi titolari del fascicolo sull’omicidio, aveva infatti inviato a Schirripa e ad altri affiliati della cosca Belfiore (ma non ai due denunciati dalla famiglia, Rosario Cattafi e Demetrio Latella) una lettera anonima contenente ritagli del quotidiano La Stampa sull’omicidio Caccia e un foglio con la scritta: “Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette (il carcere di Torino, nda). Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirripa. Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”.
Questo stratagemma sollecitò i dialoghi tra i protagonisti destinatari della lettera, che furono contestualmente mantenuti sotto intercettazioni telefoniche e ambientali.
Da queste indagini emersero elementi solidi indiziari a carico di Schirripa che portarono al suo arresto.
Nel luglio 2017 Rocco Schirripa fu condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Bruno Caccia.
Il processo di appello, iniziato il 5 febbraio 2019, vide la richiesta di conferma della sentenza di primo grado.
Il 14 febbraio 2019 la Corte d’assise d’appello confermò la sentenza di condanna, per il reato di concorso in omicidio, a carico di Rocco Schirripa.
Un anno dopo la Cassazione rese definitiva la condanna di Rocco Schirripa che é attualmente tuttora detenuto.
UNA NUOVA INDAGINE ANCORA FORSE…
Nell’ottobre 2016, intanto, si era pentito il giovane ‘ndranghetista Domenico Agresta, rivelando nuovi elementi sull’omicidio Caccia
Il procuratore Caccia – secondo le dichiarazione del neopentito – non avrebbe voluto ascoltare le richieste della famiglia Belfiore di “aggiustare alcune indagini e processi” .
Per questo, Rocco Schirripa e Francesco D’Onofrio, un estremista di Prima Linea vicino alla cosca calabrese, l’avrebbero ucciso.
D’Onofrio venne così iscritto nel registro degli indagati per omicidio, fino a quando, scaduti i termini per approfondire le indagini, la Procura di Milano chiese l’archiviazione della posizione di D’Onofrio, cui seguì prontamente la richiesta di opposizione all’archiviazione da parte della famiglia Caccia.
A quel punto la Procura generale di Milano decise di avocare l’inchiesta a carico di Francesco D’Onofrio sull’omicidio del procuratore Bruno Caccia, poiché – venne scritto nel decreto di avocazione – era “mancata nel presente procedimento una reale attività di indagine”.
L’indagine preliminare risulta ad oggi essere ancora in corso.
RISULTATI ANCORA INSUFFICIENTI E PARZIALI
Questi primi nuovi risultati (in sé certamente positivi) non hanno portato purtroppo alla possibilità di trovare prove nei confronti di altre persone pur indicate nelle ripetute denunce alla Procura di Milano della famiglia Caccia e del suo avvocato.
I magistrati milanesi incaricati della nuova inchiesta non ritennero mai che vi fossero sufficienti elementi: nemmeno per eseguire perquisizioni e intercettazioni telefoniche nei confronti di costoro.
Pertanto almeno al momento in cui si scrive non ci sono state nuove indagini né incriminazioni ulteriori possibili responsabili.
Mario Vaudano (Fonte: www.lavocedinewyork.com)
Mario Vaudano
Magistrato in pensione. Giudice istruttore a Torino 1972-1988, poi come Procuratore della repubblica ad Aosta 1989-1994, come direttore dell’ufficio ministeriale Estradizioni e assistenza giudiziaria internazionale 1994 e membro ufficio studi del CSM 1995-1997, ed infine come Presidente del Tribunale distrettuale Piemonte e Valle di Aosta 1997-2001 con un breve periodo alla Corte di Cassazione nella seconda parte del 2001. Dal 2002 al 2010 ha assunto la funzione di consigliere giudiziario operazionale presso l’ufficio europeo antifrode (OLAF) a Bruxelles fino al pensionamento. Tra il 1986 e 1988 ha collaborato intensamente in delicate indagini di riciclaggio all’estero di finanze mafiose con Giovanni Falcone.